La nuova astrazione italiana
(da Exibart)
Da qualche tempo nell’arte italiana si è andata formando una nuova
sensibilità aniconica e polisemica che, in discontinuità con i codici
dell’astrazione geometrica, informale e analitica del passato, si
esprime attraverso una pluralità di medium, dalla pittura alla scultura,
fino all’installazione.
Ciò che caratterizza gli artisti appartenenti alla generazione dei nati
negli anni Ottanta è, infatti, il riconoscimento della fondamentale
ambiguità dei linguaggi visivi e, insieme, la definitiva archiviazione
della dicotomia tra astrazione e figurazione, considerata come un
retaggio del passato. Appare ormai chiaro che oggi queste vecchie
classificazioni non sono più funzionali. Ed è forse la conseguenza di un
cambiamento strutturale della cultura che riguarda l’insorgere di una
nuova coscienza, sempre più ideologicamente a-confessionale. Un’eredità,
se vogliamo, dell’epoca postmoderna, che ha contribuito a ridefinire i
generi, fluidificandone i confini e favorendo una più libera
circolazione degli artisti tra i diversi domini disciplinari. Anche la
critica internazionale ha registrato questo cambio di marcia, spingendo
autori contemporanei come Tony Godfrey e Bob Nikas a ripensare le
vecchie denominazioni e a proporre una visione più elastica delle
ricerche pittoriche attuali. Il primo ha coniato, infatti, la
definizione di Ambiguous Abstraction, riferita alle indagini di
artisti astratti nei cui lavori sopravvivono tracce, seppur labili, di
figurazione; il secondo ha esteso la definizione di Hybrid Picture
anche
alle opere di artisti prevalentemente figurativi (come Jules de Balincourt e Wilhelm Sasnal) che ricorrono spesso a stilizzazioni
astratte.
In verità, già Gerhard Richter, con la sua vasta e variegata produzione
oscillante tra astrazione e figurazione, aveva dimostrato di considerare
la pittura come un corpus unitario, a prescindere dalle differenti
accezioni linguistiche.
Già nel 1986 il pittore americano Jonathan Lasker era convinto che
l’Astrazione fosse morta con i Black Paintings di Frank Stella e che la
pittura, da quel momento in avanti, dovesse occuparsi di temi marginali
e aleatori come la memoria, la presenza, la materialità, la trascendenza
e la mescolanza di arte alta e bassa. Temi poi divenuti tutt’altro che
marginali nella post-astrazione degli artisti trentenni, plasmati
dall’aumento massiccio delle tecnologie informatiche e digitali e
interessati ai processi di produzione e di fruizione delle immagini.
L’indagine sulla percezione, al centro delle sperimentazioni artistiche
dalla fine degli anni Cinquanta, era stata una delle tante conseguenze
provocate dalle scoperte nel campo della fisica quantistica, la quale
attribuiva all’osservatore il potere di influenzare il risultato degli
esperimenti scientifici e, per estensione, la capacità di determinare
concretamente la realtà. Tramite il Principio d’indeterminazione le
ripercussioni epistemologiche della teoria di Werner Karl Heisemberg
si
sarebbero poi fatte sentire anche nel campo delle arti contemporanee con
l’avvio di una profonda riflessione sul ruolo dell’osservatore nella
costruzione delle immagini. In sostanza, gli artisti ottici e cinetici
si consideravano degli scienziati estetici, investiti del compito
sociale di mostrare al pubblico il funzionamento dei meccanismi
cognitivi. A distanza di oltre cinquant’anni da quelle ricerche, al
culmine dell’era digitale, l’indagine sul rapporto tra immagine e
percezione ha subito un cambiamento o, quantomeno, un’estensione
adeguata ai nuovi parametri cognitivi della cosiddetta Y Generation.
Nelle ricerche di artisti come Patrick Tabarelli, Giulio Zanet, Isabella
Nazzarri, Viviana Valla e Paolo Bini, per citarne solo alcuni, la
pittura è intesa come una pratica reattiva nei confronti delle mutate
condizioni di fruizione delle immagini generate da internet e dalla
realtà virtuale, tramite lo sviluppo di una coscienza critica capace di
rimarcare le differenze tra la creazione artistica e le produzioni
visive impiegate nei canali comunicativi, commerciali e ludici.
La scelta
dell’astrazione, per alcuni immediata, per altri graduale, corrisponde
alla volontà non solo di recidere ogni legame con i linguaggi pervasivi
dei media (non necessariamente con le tecnologie), ma anche di
ristabilire un legame primario e generativo con la realtà.
Astrarre, termine derivante dal latino ab trahere, significa
“distogliere”, “separare” e indica quel tipo di azione mentale che
consente di spostare il problema dal piano concreto e immediato della
contingenza a quello mediato della riflessione. Ma nell’astrazione
odierna, concettualmente ibrida e formalmente ambigua, questo
distaccamento è momentaneo ed ha il valore di un’epochè, di una
sospensione del giudizio sulla presunta veridicità dei fenomeni.
Qualcosa, insomma, che mai si traduce in una facile evasione dalle
sabbie mobili esistenziali. (Ivan Quaroni) |