Recensione critica di Gianfranco Brunelli, direttore della mostra 'Il Ritratto dell’Artista - Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie' sul tema dell'autoritratto, presso il Museo Civico San Domenico, in Forlì, fino al 29 giugno 2025 .
							
							 
							
							Molti sono i temi e gli 
							artisti convocati in questa ventesima mostra al 
							Museo Civico San Domenico. Un compendio potremmo 
							definirla. Perché, per quanti siano, non possono 
							essere tutti. Neppure, come sempre, tutti quelli che 
							si volevano. Una mostra che gioca, attraverso 
							l’autoritratto, il rapporto tra l’artista e la 
							propria arte. Non mancano ritratti di altri 
							personaggi effigiati dal singolo artista o di 
							artisti che raffigurano altri artisti: a significare 
							una trama di relazioni formali e concettuali tra 
							visione pittorica e linguaggio verbale.
 
Questo 
							sono io. Cosa ha significato per gli artisti in ogni 
							epoca raffigurare il proprio volto? Niente come un’autorappresentazione 
							ci permette di cogliere l’essenza di un artista nel 
							suo tempo, il suo io narrante, l’immagine che ha di 
							sé, del suo ruolo sociale, la sua visione del mondo, 
							ma anche l’esplorazione intima e la proiezione di 
							sé, di come egli vuole che gli altri lo vedano, che 
							intendano la sua opera, il suo stile. 
							Nell’autoritratto il pittore si sdoppia nel duplice 
							ruolo di soggetto e oggetto, di modello e di 
							artista. L’occhio si posa su di sé, l’immagine 
							ritratta è un alter da sé ed è un sé. Segno, 
							traccia, memoria, riflesso da tradurre in 
							un’immagine definitiva, giocata nel tempo, contro il 
							tempo, oltre il tempo.
							Tutte queste motivazioni intrattengono spesso 
							relazioni reciproche. Il ritratto dell’artista, come 
							è stato più volte osservato, allegoria ed emblema, 
							racconto e finzione, menzogna e verità. 
							Dall’antichità al Novecento, l’autoritratto è “il 
							sublime ricordo dell’antico mito di Narciso”, 
							narrato da Ovidio nelle Metamorfosi.
 
Dagli esametri di 
							Ovidio, dai mosaici di Antiochia, dalle pareti ocra 
							di Pompei, attraverso l’ombra del Seicento e la luce 
							dell’Ottocento, fino ai riflessi di Bill Viola, il 
							rispecchiamento di Narciso è l’autorispecchiamento 
							dell’artista.
							La figura 
							dell’uomo che si guarda, riassume con la potenza 
							dell’immagine la domanda del conoscere e del senso. 
							Non casualmente nel mito, Tiresia profetizza alla 
							madre di Narciso, Liriope, che il figlio sarebbe 
							rimasto in vita fino a quando non avesse realmente 
							conosciuto se stesso.
							In questo l’arte pone a emblema di se stessa lo 
							specchio. Lo specchio (speculum) costituisce 
							l’esperienza che sta alla base di ciò che chiamiamo 
							immagine (da imago, un tempo maschera funeraria). E 
							l’immagine è all’origine del linguaggio. Istituisce 
							la relazione tra visibile e dicibile.
							Da oggetto strumentale, privo di intenzionalità, che 
							duplica l’immagine apparente, riflettendola, lo 
							specchio diviene riflessione, pensiero 
							‘speculativo’, simbolo e metafora. Fino 
							all’autoscatto fotografico, dovendo riprodurre la 
							realtà proiettata su uno specchio, l’artista non ha 
							altra possibilità di autorappresentarsi se non 
							mentre si guarda, attraverso uno sdoppiamento. Anche 
							i tempi storici si rispecchiano in altri tempi della 
							storia per meglio interpretare se stessi.
 
							
							Leon Battista Alberti, nel De 
							pictura (1435), riprende come modello per gli 
							artisti la figura di Narciso che si specchia nella 
							fonte, teorizzando le arti visive come arti 
							speculative, e affida all’autoritratto il tema della 
							sua notorietà di artista, introducendo la figura 
							dell’artista come uomo di lettere, protagonista del 
							proprio tempo. Apuleio, nella sua 
		Apologia (158 d.c.) aveva già pronunciato la difesa dello specchio in 
		rapporto al ritratto: “Se anche confessassi di essermi guardato allo 
		specchio, che delitto sarebbe questo di conoscere la propria immagine e 
		tenerla non riposta in un luogo, ma portarla dove si vuole in un piccolo 
		specchio?”. Il Quattrocento ci offre una serie di 
autoritratti inseriti nelle scene collettive. Dapprima essi sono segnati 
dall’intimità dell’artista con il soggetto dipinto, come nel caso di Taddeo di 
Bartolo nell’Incoronazione della Vergine di Montepulciano; in seguito l’artista 
diviene presenza testimoniale del proprio protagonismo all’interno dell’opera, 
guardando verso lo spettatore, come nel caso di Benozzo Gozzoli nella 
Processione dei Magi, o di Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi, o di 
Filippo Lippi nell’Incoronazione della Vergine, di Mantegna e Bellini nelle 
rispettive Presentazione al tempio, fino a Raffaello nella Scuola di Atene delle 
Stanze vaticane. In tali scene l’artista vi compare anche come “io narrante”, 
commentatore del significato morale della sua opera, come nel caso di Luca 
Signorelli nelle Storie dell’Anticristo di Orvieto; o testimone dei fatti della 
Istoria, come Dürer ne Il martirio dei diecimila. In questo percorso vi è lo 
sviluppo di una ricerca di identità da parte dell’artista che si fa interprete, 
tra forma e significato, dell’opera stessa. Prende piede nel XVII secolo anche la riflessione 
sull’artista nel suo ambiente di lavoro, nel momento e nel luogo della sua 
creazione artistica. Lo stesso collezionismo, a partire dalla metà del XVI 
secolo, contribuirà fortemente a questo sviluppo. La lista di questo genere di 
rappresentazioni idealizzate (l’artista al cavalletto, l’atelier dell’artista, 
la visita di committenti nello studio dell’artista) è lunga, nella penisola e 
oltralpe. Gli artisti del XVIII secolo, pur seguendo un 
lento processo di cambiamento, si ritrovano improvvisamente nel crocevia della 
storia. La loro è una immagine indecisa. Inseriti nel contesto di diverse linee 
di sviluppo del pensiero, investiti da passioni opposte, si ritrovano al bivio 
tra idealità e storia, ragione e sentimento, tra la ricerca del bello ideale e 
l’irrompere del sublime. Nella nostalgia per l’antico, non si esprime solo un 
rimpianto per l’irraggiungibile (per Herder “nella storia dell’umanità, la 
Grecia resterà sempre il luogo dove essa ha vissuto la sua più bella 
giovinezza”), ma l’insegnamento per le belle forme e la natura reale. In Fidia 
vive, per Con la modernità, l’autoritratto si carica di una 
valenza romantica, luogo di elaborazione del mito dell’artista (eroe e profeta 
dell’arte), della sua solitudine. In un’Europa ancora immersa nella luminosità 
chiara del Neoclassicismo militante di Jacques-Louis David, si fa largo la nera 
visionarietà di Francisco Goya. Nel Novecento più che il singolo autoritratto 
diviene importante la somma di tutte le immagini con cui l’artista cerca di 
farsi conoscere e di conoscersi, il che produce un attento, continuo, persino 
ossessivo studio di sé. L’io diviso, fatto a pezzi, dell’artista è lo specchio 
della società europea, che sembra, con la Prima guerra mondiale, essersi 
trasformata in un profondo incubo, una tetra carnevalata. Ne è emblema nel 
Novecento italiano la lettura poetica di Sciltian e in chiave europea, tra gli 
altri, Christian Schad.
							Il suo Narciso rappresenta sia l’apice della 
							passione medievale per gli specchi sia l’avvio del 
							ruolo dell’artista nella modernità. “Però usai di 
							dire tra i miei amici […] quel Narciso convertito in 
							fiore essere della pittura stato inventore”. E 
							ancora: “Le cose prese dalla natura si emendino 
							collo specchio”.
							Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del nuovo 
							secolo, negli appunti di Leonardo, poi riorganizzati 
							nel Trattato sulla pittura, torna il tema della 
							pittura come specchio del corpo e dell’anima 
							dell’artista. L’immagine dello specchio “è quella 
							che più immediatamente lega il tema 
							dell’autoritratto con quello più generale della 
							natura della pittura”.
							
																		
																		
																		
																		
																		
                							
							
							
       
        
      
    
		Un secolo dopo, Plotino, l’ultimo grande filosofo dell’antichità, 
		formula la tesi, scritta in riferimento a Fidia, secondo la quale 
		l’opera d’arte trascende la realtà e l’immagine (riflessa o meno che 
		sia) dimora nell’anima dell’artista. L’artista, oltre a rispecchiarsi 
		nella sua natura materiale, guarda dentro di sé e cerca la propria 
		immagine che riflette la divinità. “Rientra in te stesso e guarda: se 
		ancora non ti vedi bello di dentro, fa come lo scultore di una statua 
		che deve venire bella, il quale a volte toglie e a volte leviga a volte 
		liscia e a volte raffina, fin quando sulla statua non riaffiori un bel 
		volto”.
		Ma quando Plotino scrive è già avvenuto un altro decisivo spostamento 
		semantico, il passaggio che dapprima i latini in senso giuridico 
		(Cicerone) e poi i Padri della Chiesa (da Tertulliano a
		Origene a Gregorio di Nazianzo) in senso teologico, hanno fatto del 
		concetto di persona: da nome della maschera teatrale che indicava un 
		personaggio, persona diventa la definizione di un ruolo individuale, di 
		un volto individuale, di un individuo. Da maschera a essere umano, a 
		sostanza dell’umano, l’uomo stesso e da uomo a Dio: il mistero 
		trinitario di Dio sta nella relazione fra tre persone.
		Le premesse per la nascita dell’autoritratto ci sono oramai tutte.
		Se il volto è scrittura dell’anima, il ritratto ne è la parte visiva. E 
		se l’anima è concepita come lo specchio di Dio (imago Dei), allora 
		immagine esteriore e immagine interiore ne conservano il disegno. Il 
		tema dello specchio e del volto specchiato divengono centrali a partire 
		dal Medioevo (il vetro riflettente è del 1250), dapprima come strumento, 
		poi come allegoria. Da Giotto in avanti, lungo l’intero Rinascimento, si 
		genera così una lunga schiera di allegorie, spesso a soggetto femminile, 
		specchiata virtù, vanita e bramosia: Vanitas e Prudentia, bellezza e 
		morte, contemplazione e speculazione. Eppure, l’ossessione per la 
		propria immagine (per il ritratto in genere) nasce moderna. Essa è 
		legata al quadro e all’affermazione del ruolo dei protagonisti delle 
		corti europee. A partire dall’età umanistica si afferma sempre più 
		l’autoritratto come comunicazione del proprio talento e come 
		rivendicazione e affermazione del ruolo sociale dell’artista nel suo 
		tempo. Contiene in sé l’idea dell’oltrepassamento del tempo, uno strappo 
		al sordo silenzio della morte. L’artista, consegnando la propria 
		immagine oltre la propria morte, rende eterna la propria opera.
		Dopo la teoresi di Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti si autoritrae 
		nelle porte del Battistero di Firenze, Perugino tra i personaggi famosi 
		dell’antichità nel Collegio del Cambio, Mantegna
		nella basilica di Sant’Andrea. Una affermazione di sé (o del sé) che 
		nella pittura fiamminga aveva avviato, in contemporanea all’Alberti, Jan 
		van Eyck con il suo Uomo con turbante (1433). Egli dipinge l’atto di 
		vedere. 
		La qualità interpretativa dell’artista.
 
        
      
    
La figura eroicizzata dell’artista appare in Giorgione che si mostra come 
Davide. Il giovane Giorgione supera la grandezza dell’antico, così come Davide 
aveva superato il valore di Saul. Fino ad arrivare agli autoritratti singoli, 
frontali o di tre quarti per acquisire profondità, con gli occhi specchiati, 
rivolti all’interlocutore: se la serie può essere aperta da Antonello da 
Messina, la sequenza vede protagonisti Lucas Cranach, Tintoretto, Bernini, 
Velázquez. Ma un punto d’eccezione lo aveva stabilito Dürer, non solo elaborando 
una forma ieratica e divinizzata di se stesso, ma codificando la traccia del 
proprio pensiero nella serie dei suoi disegni, fra tutti il ritratto di 
Melantone.
Nella Firenze di fine XV secolo, Raffaello traduce il concetto ficiniano della 
bellezza neoplatonica nella “diletta giovinezza” della sua immagine e 
Parmigianino porta al culmine quel percorso. Una significativa ripresa del 
genere si ha con le prime opere di Sofonisba Anguissola. Sia Parmigianino sia 
Sofonisba usano la figura dello specchio come strumento e come metafora. In 
entrambi, gli autoritratti testimoniano dell’abilità dell’artista. Con il pieno 
Cinquecento si afferma definitivamente, mentre si sviluppa il genere della 
biografia, l’autoritratto singolo, attestazione individuale dell’artista come 
figura professionale affermata, come personaggio. Nella diffusione 
dell’autoritratto, e del suo collezionismo, molto si deve a Vasari e alla 
creazione a Firenze (nel 1563) dell’Accademia del Disegno. In seguito, nella 
corte medicea, il cardinale Leopoldo (1617- 1675) costruirà quella formidabile 
gabbia dorata di autoritratti degli artisti del suo tempo, che si sporgerà sui 
secoli successivi. Mentre a Roma, l’Accademia intitolata a San Luca collezionerà 
i volti dei suoi membri, accrescendo la testimonianza di un genere che da minore 
diventerà strumento di comunicazione.
Ma nell’autoritratto irrompe anche un’assidua meditazione sull’esistenza 
dell’artista e sul significato dell’arte. L’intera produzione di Giorgione ne è 
un indice enigmatico. I primi autoritratti di Tiziano sono prodotti in età 
avanzata, e sono una meditazione
sulla vecchiaia, oltre che un’autocelebrazione della durata della
propria fama.
In questa chiave meditativa, autobiografica, l’artista ricorrerà anche 
all’autoritratto per comunicare la propria condizione spirituale e il proprio 
tormento: Cranach e Solario si dipingono nella testa mozzata del Battista; 
Michelangelo fissa il proprio ritratto dapprima nella pelle scuoiata di san 
Bartolomeo nel Giudizio sistino, in seguito nel volto di Nicodemo della Pietà 
Bandini. E dopo di lui molti, segnatamente Caravaggio e Artemisia Gentileschi, 
si racconteranno attraverso una identificazione totale tra la propria arte e la 
propria esistenza tragica. Analogo modello viene assunto da un più pacificato 
Allori con il suo autoritratto a occhi socchiusi,
identificato nella testa tagliata di Oloferne.
L’Autoritratto o Allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi di Barberini 
va persino oltre la vicenda biografica. Le sue Susanna o Giuditta – quasi 
testimoni della sua tragedia – rimangono per un istante sullo sfondo. 
L’autoritratto attesta uno stile meno intimistico: un’esaltazione della fatica 
fisica, una sensuale austerità. L’artista è all’opera, l’artista è l’opera.
        
      
    
E tuttavia il secolo lascia senza risposta la questione dello status 
dell’artista: intellettuale, ausiliare del potere, cortigiano, attore, buffone. 
Nel Cinquecento, Paolo Giovio aveva paragonato gli artisti agli attori. Veronese 
ai buffoni. Velázquez, un secolo dopo, pone l’artista al centro della historia, 
che nel suo tempo passa per le corti europee.
Accanto al tema del ritratto intimo, colloquiale, in genere con la sposa o la 
famiglia, talora con amici (genere frequentato anche da Rubens e da Frans Hals), 
il modello dell’intellettuale gentiluomo, del pictor doctus, è il genere che 
celebra un maestro riconosciuto, imitato e sfidato come Pieter Paul Rubens. 
All’antico maestro e rivale si rivolge infatti Antoon van Dyck con il suo 
Autoritratto con girasole del 1633. Quella pesante, ostentata catena d’oro che 
gli cinge le spalle, ne sottolinea l’affermazione artistica e l’agiatezza 
economica, mentre con la destra indica il girasole, simbolo di fedeltà al suo 
nuovo sovrano Carlo I.
E se Rubens si sofferma assai poco su di sé, Rembrandt continuerà tutta la vita, 
nelle sue tele come nei suoi disegni, dai quali sono state tratte magnifiche 
acqueforti, ad apportare inquieti ritocchi alla sua immagine, scandendo le fasi 
della propria esistenza con una enigmatica, per non dire ossessiva, produzione 
di auto-raffigurazioni. La lunga, programmatica serie dei suoi autoritratti non 
attestano più solo la fama del pittore, bensì contribuiscono a crearla. Il suo 
volto diviene famoso. Rembrandt rende l’autoritratto un genere autonomo, unico, 
di successo. E tuttavia egli rimane incredibilmente originale e mai ripetitivo. 
Le sue figure rimandano all’enigma. Per questo il critico Jean Paris, nel suo 
saggio Miroirs de Rembrandt, parla dei suoi autoritratti come di “maschere 
sovrapposte una sopra l’altra”. Persona nel XVII secolo significa nuovamente 
personaggio, dramatis persona.
Nel corso del secolo recitare con il proprio volto è questione che attiene non 
solo al teatro, ma viene affrontata anche dagli artisti. Autoritratti in forma 
di attori. L’artista indossa costumi esotici. La maschera è il ritratto vivente. 
Nella “società delle maschere” delle corti di allora, i volti venivano portati 
come se fossero maschere. Teatro e vita, nel periodo barocco, divengono l’uno lo 
specchio dell’altra. L’io è un ruolo sociale. E se è stata assunta come 
paradigmatica l’opera teatrale di Calderón de la Barca, El Gran Teatro del Mundo, 
per descrivere la dissimulazione, occorre andare a Shakespeare per intendere 
fino in fondo la vertigine
umana di quel palcoscenico. Una straordinaria concettualizzazione del sé, la 
complessa domanda del “chi sono io?”, ci viene illustrata, intorno al 1646, da 
un ventenne viennese assai poco noto, Johannes Gumpp. Il suo Autoritratto 
risponde alla triplice visione dell’artista. Di spalle, in piedi, mentre 
dipinge, l’artista ha il volto riflesso nello specchio e di nuovo il suo volto 
appare dipinto sulla tela. Vi è diversità tra i due tipi di somiglianza, quella 
dello specchio e quella del ritratto. Gumpp si sdoppia nello specchio, e il suo 
ritratto si rivolge a noi.
        
      
    
Canova, la “bella natura”. Emulo di Fidia e di Prassitele, Canova è “sintesi e 
apogeo della scultura europea post-classica” (Giordani).
L’autoritratto nella forma della scultura ricalca non solo il passato, bensì 
prelude all’autocelebrazione dell’artista come storia. Thorvaldsen è più 
misurato di Canova, ma il tracciato è quello. L’idea del Pantheon dell’artista, 
di un memoriale, di un mausoleo, di un museo o di un monumento dedicato agli 
artisti famosi e agli antichi maestri, se è immaginata da Canova per se stesso, 
diventerà presto, anche per scopi politici, parte della mitografia delle 
nazioni. Si celebra la gloria riconosciuta del genio superiore come grandezza e 
continuità con il passato, si celebrano le glorie del passato come fondamento e 
affermazione del presente di una nazione.
Da Damer a Mengs a Winckelmann, gli artisti filosofi giungeranno a una 
determinazione del proprio ruolo rispetto al passato sotto forma di un vero e 
proprio magistero, mentre, complice la Rivoluzione francese, il mondo si è fatto 
nuovo: l’artista è andato alla ricerca di una forma perfetta, per poi scoprire 
al proprio fianco l’irrompere della realtà della storia e il sentimento della 
natura.
Di quel dissidio profondo saranno testimoni e protagonisti artisti come Zoffany. 
In fondo quando Edmond Burke pubblicava la sua Inchiesta sul bello e il sublime, 
nel 1757, aveva già tracciato le linee di svolgimento del secolo. E l’esito 
divaricante tra forma e contenuto è ben rispecchiato dalla dura reazione di 
Füssli a Winckelmann. Se per Winckelmann la bellezza prescinde dall’espressione, 
per Füssli “soltanto l’espressione può conferire alla bellezza il supremo e 
definitivo potere sull’occhio”.
Anche nelle lettere, e non solo nell’arte, si fa largo l’uso dell’autoritratto. 
Il volto raccontato non è solo quello dei personaggi descritti (si pensi al 
tratteggio che Manzoni fa del volto della Monaca di Monza nei Promessi sposi: 
“Il suo aspetto, che poteva di mostrar venticinque anni, faceva a prima vista 
un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, 
scomposta”), bensì anche quello dell’autore stesso. Casi emblematici sono quello 
di Vittorio Alfieri del 1786 (“Sublime specchio di veraci detti, / mostrami in 
corpo e in animo qual sono”) e quello di Ugo Foscolo del 1803 (“di vizi ricco e 
di virtù, do lode / alla ragion, ma corro ove al cor piace: / morte sol mi darà 
fama e riposo”). Scrittura dell’animo, più che somiglianza fisica. Cui cercherà 
di corrispondere il duplice ritratto che François-Xavier Fabre eseguirà per 
l’Alfieri nel 1793, e per Foscolo vent’anni dopo.
        
      
    
La generazione di mezzo ai due secoli, tra la fine del Settecento e i primi 
trent’anni dell’Ottocento, si mostra attraverso l’autoritratto, in una sequenza 
di volti da fermo immagine. Antoine-Jean
Gros, Anne-Louis Girodet, gli italiani Bossi, Minardi, Bezzuoli, Molteni 
identificano la solitudine esistenziale dell’artista con la forza del destino. 
Sospinti dal turbinio degli eventi storici e delle emozioni, così come attesta 
quella incredibile galleria di autoritratti, gli artisti si porranno 
romanticamente sulle tracce dell’‘io’. Il volto dipinto diventa l’identità 
visiva, fino all’arrivo della fotografia che se ne impossesserà.
Delacroix e Hayez hanno ripreso e seguito l’idea di autoritrarsi a mano a mano 
che cambiava il loro modo di pensare e di interpretare la pittura, in un 
tragitto in cui arte e storia, vicenda esistenziale e forma estetica si 
incontrano e s’accompagnano. Si tratta di percorsi che ben interpretano l’idea 
romantica offerta da Hegel nell’Estetica (1835), per il quale sia la pittura sia 
la musica ben possono esprimere “lo spirito particolare dei popoli, delle 
epoche, degli individui”, ma anche la vita soggettiva dell’anima: “Dolore, 
tormento del corpo e dello spirito, morte e resurrezione, la personalità 
soggettiva spirituale, l’intimità, l’amore, il cuore e l’anima”.
Se, come ha scritto Malraux, la storia moderna è lotta per la libertà e quella 
dell’artista è lotta per la propria affermazione, allora c’è unità tra l’uomo e 
l’artista. Gli esiti pacificati e borghesi di Ingres e di Fattori, che chiude il 
secolo, contrastano con l’irrompere della follia in Mancini.
Con l’irruzione del soggettivismo, l’esito simbolista dell’autoritratto segna, 
complice la fotografia, la contestazione dei riti collettivi e la costruzione di 
una mitologia personale. Su questa traccia si muovono Moreau e Böcklin, Lovis 
Corinth, La relazione tra l’uomo e l’artista si rovescerà sul primato 
dell’artista. L’eccezionalità della sua figura viene trasmessa dalla generazione 
romantica, attraverso l’Impressionismo alla generazione successiva, tanto da 
giungere tramite gli espressionisti tedeschi e i futuristi italiani (Balla tra 
tutti) nel cuore del Novecento.
        
      
    
Il ritorno dello specchio come figura del doppio, come ritorno al mito di 
Pigmalione con la modella (Carena, Ferrazzi, Tozzi) e come soglia verso 
l’indecifrabile ripropone il tema della maschera.
La maschera torna a manifestare le sue origini lontane nel ritratto moderno 
dell’artista. Era già apparsa come sberleffo e autoironia a fine Ottocento, e 
ritornerà in numerosi autoritratti nel Novecento, spesso nascosti in nature 
morte (in Severini), o come affermazione esplicita di sé, oppure esibita anche 
sotto la cifra del travestimento (Rosai, Mafai, de Chirico).
Lo specchio mostra un nuovo Narciso nel Novecento. Ma in questo nuovo 
rispecchiamento (accade, ad esempio, in Corrado Cagli), Narciso risulta, volta a 
volta, smarrito, sconosciuto a se stesso. Lo specchio mostra facce sconosciute, 
metamorfosi inattese, una pluralità di figure alla ricerca dei segni di una 
enigmatica mutazione. Nel mito dell’enigma, nella figura di Edipo, l’uomo è il 
nome dell’enigma, nominando se stesso, Edipo scioglie positivamente l’enigma e 
sconfigge il mostro alato, la Sfinge. Il Novecento scopre nell’orrore della 
propria storia che l’uomo è l’enigma ed è il mostro. I corpi non mostrano solo 
la lotta dell’arte, il corpo a
corpo, il dominio tra i sessi, preludono già alla distruzione fisica, 
all’annullamento dell’umano che si produrrà tragicamente a partire dagli anni 
trenta in Europa.
La poetica di de Chirico (compresa tra Nietzsche e Pirandello) e in generale la 
sua cospicua produzione di autoritratti (in mostra il capolavoro della Galleria 
d’Arte Moderna di Roma), che lo accompagna nell’intero arco della sua produzione 
artistica, comporta un’amara quanto mitologica dichiarazione di ‘sfratto’ 
dell’umano. Tutto è ‘cosa’, ‘caso’ e ‘caos’. De Chirico interroga, attraverso 
quella innumerevole produzione di autoimmagini, la natura dell’uomo. E lo vede 
nudo. Umano, troppo umano.
E anche il Ritorno all’Ordine dei primi novecentisti (Sironi, Funi, Marussig, 
Oppi), con quella bipartizione tra il ‘chiaro’ e lo ‘scuro’, in una luce senza 
calore, con la sua solenne sospensione neoquattrocentesca della figura e del 
gesto si mette alla ricerca di un ricongiungimento di quella dispersa armonia 
tra l’uomo e la realtà. Quella ricerca assumerà spesso i caratteri di una fuga 
dalla realtà, di una separazione, di un ripiegamento nell’‘io’. Ma non lontane, 
per non dire simbiotiche, sono le esperienze classificate sotto la denominazione 
di Realismo magico (secondo il conio di Franz Roh) o di quella Nuova Oggettività 
che sente il vitalismo
come antropomorfo. Fino al realismo post bellico, dove l’ironia diviene l’unico 
anestetico alla febbre dell’artista, alla malattia del tempo. Artisti quali 
Chuck Close, Bill Viola, Pistoletto, Ceroli, Marina Abramović chiudono il nostro 
compendio, indicando strade diverse, approcci formali e materici diversi. Tutti 
compresi nella ricerca delle possibili espressioni umane?
Il Ritratto dell’Artista - Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie
Un saggio in immagini dall’Antico al Novecento.
Un compendio di storia dell’arte attorno al ruolo dell’autoritratto nella poetica degli artisti
23 febbraio – 29 giugno 2025
Museo Civico San Domenico, Forlì
www.mostremuseisandomenico.it